Cenere. Un’operazione rischiosa
Silvio Campus, 02/06/2016
La coerenza, l’intima connessione e interdipendenza di elementi differenti, la continuità logica di pensiero e azione, è una virtù rara.
Quella formale, già difficile da rispettare in singole espressioni artistiche (ad esempio in letteratura, divenuta ormai un mondo ove le contraddizioni stilistiche regnano sovrane) risulta essere ancora più complessa da raggiungere quando l’accordo deve essere definito tra linguaggi differenti come la letteratura, il cinema, la musica.
Con Cenere, Duse e l’arte muta la regista Monica Luccisano ha condotto un’operazione rischiosa, non facile, e l’ha portata a brillante compimento utilizzando un ulteriore linguaggio, quello teatrale, con cui ha saputo definire la giusta intonazione dell’insieme.
Il teatro, quindi, come collante ma soprattutto come elemento aggregante, che dona alle diverse espressioni un’uniformità di stile e ne mette in luce la comune nobiltà.
Pertanto il repertorio musicale, curato ed eseguito con maestria da Diego Mingolla, oltre ad essere prossimo, dal punto di vista cronologico, agli anni di realizzazione del romanzo (1904) e del film (1916), è perfettamente coerente, nella forma, con la trama asciutta e la struttura semplice del testo deleddiano; con il contrastato rapporto epistolare che intercorre tra Eleonora Duse e la figlia Enrichetta; con la geometria visiva del film.
È sufficiente ricordare, in tal senso, il razionalismo della costruzione musicale di Ravel, la ritmica puntigliosa di Skrjabin, il rigore formale di Satie.
L’architettura essenziale della scena (una sedia, un tavolo, una poltrona, un telo sospeso su cui viene proiettato il film) è a sua volta coincidente, dal punto di vista concettuale, con le immagini ricche di chiaroscuri e le prospettive giottesche dell’opera cinematografica (volumi e spazi in composizioni dall’aspetto compatto), sulla quale l’introversione caratteriale di Eleonora Duse ebbe grande influenza durante la lavorazione, imponendo una stilizzazione assoluta.
A questo proposito, la misurata recitazione, anche nei gesti, di Olivia Manescalchi, che a tratti sembra virare verso un sottile sarcasmo, è perfetta nel definire la solitudine quotidiana e le depressioni della Divina, ma nel contempo non è distante dalla visione deleddiana dell’esistenza. Sono atteggiamenti nei quali l’ineluttabilità del destino è sovrana ed è ancora lontano l’orizzonte psicoanalitico dei rapporti Madre/FiglioMadre/ Figlia.
Pertanto la nitida regia di Monica Luccisano, con la sapiente ed equilibrata alternanza di musica, immagini e recitazione, rispetta e ricrea alla perfezione il mondo delle scabre, primitive solitudini delle tancas e dei paesi barbaricini (e con esse la solitudine della condizione femminile), che Grazia Deledda definì con precisione in tutte le sue opere, e lo unisce a quello altrettanto “drammatico” dei palcoscenici teatrali di fine Ottocento. L’impeccabile matrimonio si completa compenetrandosi con l’universo, modernissimo, della neonata arte cinematografica.