La maschera di Amleto. Una terza sponda
Silvio Campus, 18/11/2016
La maschera di Amleto, il monologo scritto e diretto da Monica Luccisano con una padronanza di linguaggio drammaturgico che affascina sia per la geometrica precisione che per la coerenza dell’insieme privo di cedimenti stilistici, è un’opera che trasporta lo spettatore lontano dal luogo fisico della rappresentazione.
La memoria corre, nel buio della sala, a lontani capolavori letterari (con insolita ma non impropria associazione, ritorna in mente il romanzo Grande Sertao di João Guimarães Rosa, in cui lo svelamento della identità di Diadorim – in realtà una donna vestita da uomo – suggella una storia variopinta e ricchissima di metafore) e a più prossimi componimenti teatrali (si pensi ai drammi crepuscolari di Bernard Marie Koltès, dove la solitudine, l’inadeguatezza, il nascondimento, sono sempre presenti,anche se in forma metaforica).
Questi accostamenti non sono temerari: il tema dell’inadeguatezza è al centro di tutte le opere dello scrittore brasiliano; l’analisi delle nevrosi esistenziali e la ricerca della propria identità sono le basi su cui poggiano i lavori del purtroppo trascurato e non sempre compreso commediografo francese. Inoltre non bisogna dimenticare che lo stesso Koltès fu un grande lettore e traduttore di Shakespeare. I monologhi dei suoi personaggi e l’eleganza del linguaggio utilizzato ne sono una prova.
Non è importante sapere se queste similitudini siano casuali oppure volute.
Aggiungono valore al già pregevole testo e lo situano degnamente tra quelle opere che, pur traendo ispirazione da grandi chefs-d’oeuvre del passato, sono in grado di distaccarsene senza tradimenti e pericolose quanto incoerenti revisioni.
In questo caso il merito consiste non soltanto nell’aver rivisitato in modo originale una tragedia celeberrima e la conseguente teoria ottocentesca sulla possibile identità femminile del Principe di Danimarca, ma anche nell’aver “abbandonato” il protagonista in scena, davanti agli spettatori, solo.
Orazio, Ofelia, Gertrude vengono evocati ma restano lontani, assenti; Amleto non ha più, e addirittura sembra non voglia avere, contatti diretti con le figure che popolano la corte e con cui imbastisce dialoghi immaginari; la sua solitudine non è soltanto rappresentata, ma forse desiderata; l’incertezza e l’ambiguità che impregnano le relazioni all’interno della corte stessa si trasformano e diventano a mano a mano del tutto intime, personali; la ricerca di una definita identità (sessuale e psicologica) si trasforma ben presto nella ricerca di un possibile significato dell’esistere.
Questo accade in modo tale da condurre gli spettatori verso una lenta ma costante revisione di se stessi: una sorta di piacevole incanto che trasforma il linguaggio teatrale in una profonda analisi introspettiva.
Il percorso di “maturazione” e di avvicinamento al crepuscolo del protagonista, e di conseguenza della rappresentazione, è affiancato sulla scena da un vero e proprio concerto di musica colta che potrebbe vivere di luce propria.
Infatti Monica Luccisano ha scelto di accompagnare il lungo monologo di Amleto (interpretato con determinazione da Olivia Manescalchi, attrice dotata di una tagliente espressività fisica, gestuale e vocale, che si presenta agli spettatori vestita a la garçonne) con un quartetto di viole da gamba di grande esperienza, l’Accademia Strumentale Italiana.
Il repertorio, tra Rinascimento e Barocco, è di notevole eleganza e complessità. Il passaggio dalle danze con andamento grave e dignitoso (pavane) a quelle di carattere vivace (gagliarde), permette agli spettatori di assistere a un dialogo originalissimo tra linguaggi differenti. Il risultato è la trasformazione dell’accompagnamento musicale in un approfondimento del testo teatrale e dell’idioma con il quale è costruito: un risultato in origine per nulla scontato.
L’insieme è perfezionato dall’intervento ritmico di “Sbibu” (al secolo Francesco Sguazzabia), autentico fuoriclasse delle percussioni, capace di fornire ad ogni gesto, ad ogni parola di Amleto, e dell’attrice, supporto e cadenza coerenti, conservando tratti drammatici (nell’accezione più classica) e nel contempo modernissimi.
Al termine del monologo lo spettatore ha la sensazione di aver assistito a una sorta di dramma sulla sospensione dell’esistenza, anzi, di averne fatto addirittura parte.
Come Amleto, i suoi piedi hanno “calpestato”, anche soltanto per un attimo, quella terza sponda del fiume (la sponda del non-essere-più e del non-essere-ancora) che ci rimanda al grande Guimarães Rosa.
Cenere. Un’operazione rischiosa
Silvio Campus, 02/06/2016
La coerenza, l’intima connessione e interdipendenza di elementi differenti, la continuità logica di pensiero e azione, è una virtù rara.
Quella formale, già difficile da rispettare in singole espressioni artistiche (ad esempio in letteratura, divenuta ormai un mondo ove le contraddizioni stilistiche regnano sovrane) risulta essere ancora più complessa da raggiungere quando l’accordo deve essere definito tra linguaggi differenti come la letteratura, il cinema, la musica.
Con Cenere, Duse e l’arte muta la regista Monica Luccisano ha condotto un’operazione rischiosa, non facile, e l’ha portata a brillante compimento utilizzando un ulteriore linguaggio, quello teatrale, con cui ha saputo definire la giusta intonazione dell’insieme.
Il teatro, quindi, come collante ma soprattutto come elemento aggregante, che dona alle diverse espressioni un’uniformità di stile e ne mette in luce la comune nobiltà.
Pertanto il repertorio musicale, curato ed eseguito con maestria da Diego Mingolla, oltre ad essere prossimo, dal punto di vista cronologico, agli anni di realizzazione del romanzo (1904) e del film (1916), è perfettamente coerente, nella forma, con la trama asciutta e la struttura semplice del testo deleddiano; con il contrastato rapporto epistolare che intercorre tra Eleonora Duse e la figlia Enrichetta; con la geometria visiva del film.
È sufficiente ricordare, in tal senso, il razionalismo della costruzione musicale di Ravel, la ritmica puntigliosa di Skrjabin, il rigore formale di Satie.
L’architettura essenziale della scena (una sedia, un tavolo, una poltrona, un telo sospeso su cui viene proiettato il film) è a sua volta coincidente, dal punto di vista concettuale, con le immagini ricche di chiaroscuri e le prospettive giottesche dell’opera cinematografica (volumi e spazi in composizioni dall’aspetto compatto), sulla quale l’introversione caratteriale di Eleonora Duse ebbe grande influenza durante la lavorazione, imponendo una stilizzazione assoluta.
A questo proposito, la misurata recitazione, anche nei gesti, di Olivia Manescalchi, che a tratti sembra virare verso un sottile sarcasmo, è perfetta nel definire la solitudine quotidiana e le depressioni della Divina, ma nel contempo non è distante dalla visione deleddiana dell’esistenza. Sono atteggiamenti nei quali l’ineluttabilità del destino è sovrana ed è ancora lontano l’orizzonte psicoanalitico dei rapporti Madre/FiglioMadre/ Figlia.
Pertanto la nitida regia di Monica Luccisano, con la sapiente ed equilibrata alternanza di musica, immagini e recitazione, rispetta e ricrea alla perfezione il mondo delle scabre, primitive solitudini delle tancas e dei paesi barbaricini (e con esse la solitudine della condizione femminile), che Grazia Deledda definì con precisione in tutte le sue opere, e lo unisce a quello altrettanto “drammatico” dei palcoscenici teatrali di fine Ottocento. L’impeccabile matrimonio si completa compenetrandosi con l’universo, modernissimo, della neonata arte cinematografica.
Palcoscenico, un remake
Palcoscenico, il mistero della recitazione
Maura Sesia, www.sistemateatrotorino.it, 7/12/2015
Sembra cinema anche lei, Sonia Bergamasco, che invece è lì, vera, ma diafana, elegante, sinuosa, si aggira sul palco a nascondersi e a svelare i suoi dubbi di attrice e si interroga sul proprio mestiere confrontandosi con colleghe bidimensionali, proiettate su una parete sghemba. È un cerchio compiuto il cerebrale e ammaliante Palcoscenico, un remake, prodotto dall’Associazione Baretti, in prima nazionale nell’omonimo teatrino torinese, ad aprire la nuova stagione. Un monologo, dove la protagonista dà corpo al minuzioso lavoro dell’autrice Monica Luccisano, impegnata a indagare il mistero della recitazione attraverso capodopera della settima arte, qui citati, intrecciati, accennati o raccontati per esteso, come la pellicola che presta il titolo alla pièce, Palcoscenico (Stage Door) del 1937 di Gregory La Cava. Bergamasco ha vinto il Premio Eleonora Duse 2014 ed è splendida nell’incarnare l’incertezza, la perplessità, il lavorio costante a cui un’interprete è tenuta, sul crinale tra verità ed immaginazione. Quella lama sottile e affilata, che separa un successo da un fallimento.
Stage Door narra di attrici disposte a tutto per una scrittura, entusiaste ed estenuate da una conquista o un diniego. Bergamasco segue le avventure di alcune di loro, dialogando a distanza, ma partecipando con l’adesione di uno spettatore emotivo attanagliato al grande schermo. Intanto, altre storie si insinuano nel percorso di studio, così da puntellare una tesi che con il passare dei minuti si fa più sfumata. Perché il mistero dell’attore, che è il perno del teatro, quella credibilità da dare a personaggi con corpi in prestito, in un gioco di consapevolezze scordate, il perché questa attrice bionda e impallidita dalle sapienti luci di Alberto Giolitti, che enuncia poco e si muove nell’ombra come a commentare soltanto, sia poi l’elemento più forte, incisivo, portante della pièce, sfugge a logici inquadramenti. Alla fine, Sonia Bergamasco, che ha agito nella scena curata da Nathalie Deana, all’apparenza spoglia ma di estrema efficacia, si siede su una poltroncina di velluto rosso, che all’inizio è stata dichiarata lo scranno della grande attrice Sarah Bernhardt. Non per chiudere una partita aperta tra sé e l’altro sé, fittizio. È un gioco che si rinnova, nutrendosi di dubbi, e incanti.
Il cine-teatro di Sonia
Alessandra Vindrola, «La Repubblica», 25/11/2015
Sonia Bergamasco, premio Duse 2014 presenta un testo di Monica Luccisano ispirato a un vecchio film del 1937 con Katharine Hepburn e Ginger Rogers.
Intervista a Sonia Bergamasco
La nuova stagione del Teatro Baretti, in coincidenza con il Torino Film Festival, si intitola “Ciak si vive!” e gioca a mettere a confronto teatro e cinema. Lo spettacolo inaugurale punta come uno zoom sul doppio legame: in scena questa sera (repliche fino a venerdì) Sonia Bergamasco, attrice che passa dal cinema al teatro senza soluzione di continuità, interprete di “Palcoscenico, un remake”, scritto e diretto da Monica Luccisano, in prima assoluta per il Baretti.
Lo spettacolo è ispirato da un vecchio film in bianco e nero, “Stage Door” del 1937 (tradotto in Italia appunto con il titolo “Palcoscenico”) e interpretato da Katharine Hepburn, Ginger Rogers, Andrea Leeds, per la regia di Gregory La Cava.
«Per la verità il film non lo conoscevo – ammette con candore Sonia Bergamasco – Racconta di tre aspiranti attrici che vivono nello stesso pensionato a New York e aspirano ad avere la stessa parte in un’opera teatrale».
È curioso che il film che vi ha ispirato sia un dramma piuttosto lacrimevole…
«La trama del film non è importante. Quello che è interessante è che parla dell’essere attrice, mettendo a fuoco anche le difficoltà di questa scelta nel quotidiano. L’approccio ovviamente non è una riflessione critica, piuttosto un dialogo con le immagini».
E quali sono le difficoltà dell’essere attrice?
«Innanzitutto ci sono le difficoltà legate al modo di esserlo, alle occasioni da cogliere, a come stare in scena. E poi c’è l’aspetto che riguarda più strettamente le donne, che soprattutto al cinema sono, se non proprio discriminate, certo meno considerate dei colleghi uomini. Invece in teatro l’artigianalità ha un’importanza fondamentale, e questo aspetto non solo è la carta vincente, è anche un valore aggiunto: per un teatrante significa libertà».
Ma se non c’è la trama di Palcoscenico, cosa resta del film nello spettacolo?
«Alcune immagini proiettate sulle pareti del teatro, e soprattutto un dialogo con le voci del film, con i suoi snodi. Per me è stata un’esperienza nuova, perché inevitabilmente mi richiedeva un grande investimento personale».
Uno sforzo, per lei che è così riservata.
«In effetti Monica Luccisano ha dovuto avere molta pazienza. Ogni volta che c’era qualcosa in cui non mi riconoscevo mi mettevo a discutere… Poi però ho capito che andava bene lo stesso… E mi veniva in mente una frase di Giuseppe Bertolucci e che diceva che i segni più belli della lingua italiana sono i punti interrogativi».
L’attrice gioca con le rifrazioni
Silvia Francia, «La Stampa», 24/11/2015
Un’attrice di teatro che interpreta un’attrice del cinema che interpreta un’attrice di teatro e così via, in un gioco di rifrazioni che rimbalzano infinite volte. Per far dialogare palcoscenico e set, l’Associazione Baretti diretta da Davide Livermore, ha scelto Sonia Bergamasco, protagonista, domani alle 21, della prima nazionale di «Palcoscenico. Un remake».
Lo spettacolo dà il via alla stagione del teatro di via Baretti, intitolata «Ciack si vive!» è dedicata al confronto fra le diverse declinazioni dell’arte attoriale, quella da cinepresa e quella da ribalta. «Monica Luccisano ha scritto e diretto lo spettacolo, ai cui testi abbiamo poi lavorato insieme, per farli aderire al meglio alla mia interpretazione in un lavoro di scena in continuo dialogo con l’immagine filmica» racconta la Bergamasco.
«Nella finzione teatrale, io sono un’attrice che interpreta un remake teatrale del film “Stage dooor” del 1937, tradotto in Italia con il titolo “Palcoscenico” e interpretato da Katharine Hepburn e Ginger Rogers, per la regia di Gregory La Cava. La protagonista conduce il pubblico tra gli snodi di quel film e finisce per ritrovarsi dentro la pellicola». Dialogando con le sue immagini si interroga sul suo mestiere, ma anche sul rapporto tra realtà e illusione. «Una questione ponderosa e difficile da scandagliare, ma noi cerchiamo di affrontarla con una certe levità» precisa la Bergamasco, la cui carriera si fonda su un costante avvicendarsi di ciack e applausi live.
L’attrice milanese, che ha debuttato con Strehler e ha lavorato con bei nomi del teatro, stasera sarà ospite del Tff, per la proiezione di «Stage Door», versione originale con sottotitoli: alle 20,30 al Massimo.
Quell’occasione speciale rende un dialogo possibile
«La Stampa – Torino Sette», 20/11/2015
Il personaggio: Sonia Bergamasco.
Un’occasione speciale, quella che nasce dalla collaborazione tra due realtà storiche torinesi – da una parte il Festival del Cinema e dall’altra il Teatro Baretti. Con la complicità di Monica Luccisano, autrice e regista torinese, il 25 novembre presenteremo in prima nazionale un lavoro che si intitola Palcoscenico, un remake. Un dialogo “possibile” tra corpi d’attrici in bianco e nero, che si muovono ridono e danzano come spettri sognanti sulla parete di fondo del cinema-teatro Baretti e il corpo in carne ed ossa di un attrice che tenta con loro, sul palcoscenico, di fare luce su uno dei mestieri più amati e travisati di sempre. E le domande che nascono da questo dialogo alimentano nuove questioni e aprono ad altri interrogativi, e il nostro “fare luce” si rivela, alla fine, un semplice accendere fiammiferi nel buio della sala, per tentare di riconoscere immagini che possano parlare di noi e con noi, come in un sogno. Parte, tutti, attori e non attori di una storia di cui conosciamo l’inizio, non ancora la fine perché – ci ricorda Shakespeare – siamo della stessa sostanza dei sogni e la nostra vita breve è circondata dal sonno. Con leggerezza, in punta di piedi. Un remake.
J’accuse! Da Bernstein alle Pussy Riot
Un lungo “J’accuse” di processi e note
Tiziana Longo, «TorinoSette. La Stampa», 22/05/2015
Stati Uniti, anni Cinquanta. La Commissione MacCarthy prende di mira il giovane Bernstein, accusandolo di comunismo. Sudafrica, anni Ottanta. La Truth and Reconciliation Commission organizza tribunali di pacificazione tra vittime e carnefici dell’Apartheid: Roger Lucey, rocker di colore malvisto dagli apparati governativi per le sue canzoni di protesta, interroga Paul Erasmus, ex agente dei Reparti Speciali, suo persecutore. Libano, anni Novanta, Marcel Khalife, cantautore amatissimo nel mondo folk arabo, è processato per aver citato in un suo brano alcuni versi del Corano. Russia, 2012. L’oltraggioso collettivo femminista Pussy Riot viene processato per aver cantato una preghiera punk contro Putin il dittatore. Si muove su questo filo il “J’accuse! Da Bernstein alle Pussy Riot” di Monica Luccisano, drammaturga ben nota al pubblico torinese, in prima assoluta dal 27 al 29 maggio alle ore 21 al Baretti. Interpreti Giancarlo Judica Cordiglia, Olivia Manescalchi, Sax Nicosia, mentre la scelta delle musiche è a cura di Diego Mingolla. Biglietto 12 euro, ridotto 10. Info www.cineteatrobaretti.it.
“J’accuse”, musicisti di fronte al potere
Luigi Moretti, «CronacaQui. Torino», 27/05/2015
È di Monica Luccisano il testo e la regia di “J’accuse! Da Bernstein alle Pussy Riot”, lo spettacolo che debutta in prima assoluta questa sera (in replica domani e venerdì) al Teatro Baretti di Torino. Con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia, Sax Nicosia va in scena la musica e la sua essenza fondamentale: la libertà di espressione. Leonard Bernstein, Roger Lucey, Marcel Khalife e Pussy Riot sono i protagonisti della pièce. Personaggi diversi che appartengono a mondi musicali diversi, epoche diverse, paesi diversi. Un ideale filo rosso li accomuna, dagli Stati Uniti degli anni Cinquanta, al Sudafrica degli anni Ottanta, dal Libano degli anni Novanta alla Russia dei giorni nostri: tribunali e atti d’accusa. Come spiega la regista, sono “musicisti di fronte al potere, costretti a difendere, ciascuno a proprio modo, la libertà d’espressione”.
Il feroce “J’accuse” di un quartetto ribelle al potere
Maura Sesia, «La Repubblica», 27/05/2015
Una musicologa appassionata di prosa e solita a miscelare i generi è l’autrice della pièce che conclude la stagione al Teatro Baretti, “J’accuse! Da Bernstein alle Pussy Riot”, redatta e diretta da Monica Luccisano. La produzione è della stessa Associazione Baretti, che ne affida l’interpretazione a Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia, Sax Nicosia; del sound design si è occupato Diego Mingolla, delle luci Alberto Giolitti. Si evoca un quartetto di musicisti ribelli alle ottusità del potere, di nazioni diverse, accomunati dal concepire la musica come espressione di libertà: Leonard Bernstein, il rocker sudafricano Roger Lucey, il cantautore libanese Marcel Khalife, le Pussy Riot, condannate a due anni di carcere in Siberia per aver intonato una preghiera punk contro Putin.
Al Teatro Baretti “J’accuse” da oggi a venerdì alle 21 in prima assoluta nella sala del teatro Baretti di Torino.
“J’accuse!” la ribellione nella storia
Noemi Penna, «La Stampa», 28/05/2015
Carcerate per aver tentato di esibirsi con il volto coperto da passamontagna fluo in un’invettiva contro Vladimir Putin. L’accusa è quella di atti di teppismo motivato da odio religioso o da ostilità: sono le Pussy Riot, il collettivo punk femminista russo noto per la linea dichiaratamente antigovernativa seppur pacifista, protagoniste della nuova produzione dell’Associazione Baretti «J’accuse!», in scena in prima assoluta questa sera e domani (28 e 29 maggio) al teatro Baretti di Torino, alle 21 in via Baretti 4. Ideazione, testo e regia sono di Monica Luccisano, in scena ci saranno Giancarlo Judica Cordiglia, Olivia Manescalchi e Sax Nicosia per dar vita in «J’accuse!» a quattro diversi periodi storici e di ribellione, resi ancor più spettacolari degli interventi del sound designer Diego Mingolla.
Anni Cinquanta, Stati Uniti: la temibile Commissione McCarthy, che operò per la repressione delle attività considerate antiamericane, prende di mira il giovane Leonard Bernstein, accusandolo di comunismo, rischiando così di stroncargli la carriera. Anni Ottanta, Sudafrica: Roger Lucey, rocker di colore malvisto dagli apparati governativi per le sue canzoni di protesta, interroga Paul Erasmus, ex agente dei Reparti Speciali, suo persecutore. Anni Novanta, Libano: il cantautore Marcel Khalife, amatissimo nel mondo folk arabo, è processato per aver citato in un suo brano alcuni versi del Corano. 2012, Russia: l’oltraggioso collettivo femminile Pussy Riot viene processato per aver cantato una preghiera punk contro Putin. Uno spettacolo che vuole essere un inno alla difesa fondamentale della libertà di espressione sotto qualsiasi latitudine e con qualsiasi linguaggi musicale. Biglietti a 12 euro, su prenotazione allo 011/65.51.87.
Valzer a tempo di guerra
La Grande Guerra dei soldati e delle maestre
Maria Teresa Martinengo, «La Stampa», 03/12/2014
Lo spettacolo è stato costruito dall’autrice e regista Monica Luccisano come un racconto sulla Memoria in cui si intrecciano musica e parole: La Valse di Ravel, prima di tutto, filo conduttore che dalla spensieratezza della Belle Époque diventa danza macabra. Ma anche Le Déserteur di Vian, La guerra di Piero di De André, Le chants de la mi-mort di Savinio, Gurney, Schoenberg, Debussy. Poi, le storie, i sentimenti di chi ha vissuto il conflitto ed ha affidato al diario, a lettere e a taccuini le sue esperienze.
I personaggi – tutti interpretati da un camaleontico Sax Nicosia, sul palco con il mezzosoprano Manuela Custer e Diego Mingolla al pianoforte – raccontano la Grande Storia attraverso singole, ignote, vite umane. La raccontano a Ravel come possono, come sanno: il soldato, la maestra francese, l’artigliere russo, l’infermiera dell’esercito inglese, il fante napoletano, l’alpino piemontese, il disertore. E poi c’è il compositore, arruolato come autista di camionette e ambulanze, che scopre in quel ruolo “defilato” l’orrore del conflitto.
Lo spettacolo dell’anniversario sposta l’attenzione dalle date e dai luoghi, diventa umanità in carne ed ossa «e questo porta ad universalizzare – dice la regista – le emozioni del tempo di guerra: la solitudine e la paura del soldato sono la solitudine e la paura di ognuno in ogni tempo».
Valzer a tempo di guerra
Blog «La Scuola all’Opera», 12/2014 e 01/2015
Auguro molta fortuna allo spettacolo che credo individui la modalità ideale per emozionare e interessare davvero i giovani su eventi che spesso l’insegnamento tradizionale non riesce a comunicare nei suoi aspetti universali e senza tempo. Oggi prevale la fretta e l’approssimazione ed è difficile richiedere l’approfondimento e la riflessione… dopo lo spettacolo forse sì! (Mariarosa Bassignano, docente)
Vogliamo congratularci per la straordinaria capacità interpretativa degli artisti: Il loro carisma ha fatto sì che lo spettacolo fosse molto toccante, coinvolgente ed emozionante. La musica e la voce viaggiavano all’unisono, sottolineando la drammaticità delle scene e allo stesso tempo il valore significativo del silenzio in quella scena meravigliosa con le torce. (Scuola Bobbio di Carignano (TO), classe 4D).
Ho assistito allo spettacolo “Valzer a tempo di guerra” accompagnando due classi Quinte dell’Istituto tecnico grafico e fotografico Bodoni-Paravia, nel quale lavoro come insegnante di lettere. E’ stata un’esperienza emozionante e arricchente. Gli studenti hanno seguito lo spettacolo con attenzione e coinvolgimento. Lo spettacolo mi è piaciuto molto ed è ben congegnato e coeso: testi, immagini e musiche risultano convincenti ed efficaci e la Grande Guerra, spesso avvertita come lontana e priva di attualità, ha generato interesse e viva curiosità. Bravi tutti e complimenti all’arguta regia di Monica Luccisano (Mimmo Genga, docente)
Mind the Gap, Lady Shakespeare!
Stresa Festival: “Mind the Gap Lady Shakespeare”
Maria Elisa Gualandris, www.tuttonotizie.info, 28/08/2014
L’ambiguità che si nasconde tra parola e significato, tra essere e non essere, tra attore e spettatore, tra genere maschile e genere femminile, passato e presente: questo il tema di Mind the Gap, Lady Shakespeare!. Il testo scritto da Monica Luccisano e portato in scena da una magistrale Sonia Bergamasco […] con l’avviso che risuona nella Metropolitana di Londra: “Mind the Gap”, attenzione al vuoto, che diventa un monito esistenziale. Sulla scena sono ricomparse le grandi donne shakesperiane: Ofelia, Lady Macbeth, Giulietta, Beatrice, Viola, Desdemona che superano il vuoto, il “gap”, dei secoli, arrivando a noi in tutta la loro stringente attualità.
La musica ha un ruolo tutt’altro che di accompagnamento. Il gioco delle ambiguità si riflette infatti anche nei due fronti musicali: il pianoforte di Gianluca Cascioli, che ha composto musiche ad hoc accostandole a brani rinascimentali, e il consort di viole da gamba dell’Accademia Strumentale Italiana, strumenti distanti nel tempo, nel linguaggio, nei colori. La parola e la musica si inseguono, si fondono, si completano, fino a formare un nuovo linguaggio teatrale: «È il gioco teatrale – dice Bergamasco – […]: cercare di smontare il giocattolo e rimontarlo avendo la musica come parte integrante della drammaturgia».
Sonia Bergamasco perfetta Lady Macbeth
Luca Segalla, «La Prealpina», 29/08/2014
Sul palcoscenico sembra una tigre, nelle movenze e negli scatti della voce. Le parole sono dardi sottili, insinuatesi nella penombra del Palazzo dei Congressi con le modulazioni di una melodia sussurrata e gridata, a volte rallentata come in un sogno o in un delirio. Sonia Bergamasco è Lady Macbeth, è Desdemona, Ofelia, Giulietta. È in una sola sera tutte le eroine di Shakespeare. È la protagonista assoluta dello spettacolo ideato dalla drammaturga torinese Monica Luccisano, andato in scena mercoledì in prima assoluta per le Settimane Musicali. In “Mind the Gap, Lady Shakespeare!” parole e musica interagiscono come un meccanismo a orologeria; è un gioco deformante di specchi dove le sonorità antiche delle viole da gamba dell’Accademia Strumentale Italiana si oppongono a quelle del pianoforte di Gianluca Cascioli, pianista sopraffino. Esegue anche delle sue composizioni, scritte per l’occasione e presentate anch’esse in prima assoluta; sono musiche taglienti, bianchissime e inquietanti […] Le musiche scritte da Cascioli – eseguite dallo stesso splendidamente – si insinuano come aghi sottili tra un monologo e l’altro dell’attrice milanese…
Il bardo e le donne nella voce di Sonia
Angelo Foletto, «La Repubblica», 31/08/2014
Canta, recita, si toglie vestiti e accessori mano a mano che procede il denudamento dell’anima femminile, cadenzato da versi di elette eroine shakespeariane, da Lady Macbeth a Ofelia e Giulietta. Manca solo che suoni il pianoforte in scena visto che lo sa fare, Sonia Bergamasco in Mind the Gap, Lady Shakespeare!, commissionata dallo Stresa Festival per il 450esimo della nascita del poeta. Il concerto-spettacolo, “un prologo, sei quadri e un epilogo” di Monica Luccisano tenta di alleviare il gap emotivo palcoscenico e cronaca. L’itinerario testuale è fatto di “fotografie verbali” che intagliano la scena nuda (un gradino di metropolitana londinese, la cui mappa ingigantita fa da fondale, è praticabile per il pianoforte e la Bergamasco che appare come regina dark) […] Affascina il viraggio dall’intonazione teatrale a quella cantata (nei song da Otello a Amleto), o attualizzazioni come l’annuncio della morte di Desdemona con toni e titoli (da purtroppo attualissima) cronaca nera […]
Stresa Festival 2014 – Mind the Gap
Renzo Bellardone – Agata De Luca, www.palermomania.it, 05/09/2014
Entrando in sala ci si è ritrovati immersi nelle voci e rumori della Subway londinese. Sul palco due piani di scena a rappresentare la banchina, le scritte “Mind the Gap” ed il vuoto, ovvero dove scorrono i binari. Lo sfondo è rappresentato come un salvaschermo del Computer, coloratissimo e cangiante grazie ai led sovrastanti, ma in effetti è la piantina della metropolitana, efficacemente realizzata da Luca Tombolato.
Sonia Bergamasco è entrata ed uscita, con dolcezza o prepotenza, nelle/dalle diverse donne shakespeariane: Lady Macbeth, Beatrice, Ofelia, Desdemona: tutte donne di grande carattere, di forza. L’attrice si è sdoppiata, triplicata con voce roca, suadente e decisionista, con movenze di danza, con il canto. Vera “belva da palcoscenico” ha aggredito i personaggi ed il pubblico, si è mossa con estrema sicurezza. Gli indumenti prima abbandonati per uscire da un ruolo, li ha raccolti poi verso il finale come in un ritrovarsi pirandelliano “uno, nessuno, centomila”.
E durante l’interpretazione dei testi incisivi di Monica Luccisano, tre interventi a colmare e sottolineare: i rumori del metro e le efficaci luci (led, par, neon gialli su molte barre al soffitto), ideati da Alberto Irrera e il doppio volto della musica: antica e contemporanea.
Ladies shakespeariane
Carla Di Lena, «Il giornale della musica», luglio-agosto 2014
«È una galleria di personaggi femminili del teatro di Shakespeare pensata sempre in funzione di un dialogo con la musica. Il testo è di Monica Luccisano, drammaturga caratterizzata dall’interesse per forme di teatro con un dialogo musicale attivo. Abbiamo lavorato insieme perché io possa entrare nel tempo e al tempo stesso dialogare musicalmente» – ci spiega Sonia Bergamasco […]– Ancora una volta è il gioco del teatro, cercare di smontare il giocattolo e rimontarlo avendo la musica come parte integrante della drammaturgia».
Intramontabile Ofelia
Sabina Minardi, «L’Espresso», 28/08/2014
Per primo, ti sorprende il tono: Sonia Bergamasco più che parlare, solfeggia: semibrevi, pause, cesure, fraseggi eleganti con improvvisi cambi di chiavi. Poi, ti colpisce il linguaggio: parole centrate, ma allusive al tempo stesso. Termini per dire. Ma anche per suggerire altri mondi.Evoca il passato, calato nella contemporaneità, l’ultimo spettacolo che l’attrice porta in scena: intreccio di piani e di atmosfere sin dal titolo: “Mind the Gap, Lady Shakespeare!”, resto di Monica Luccisano ispirato a William Shakespeare, con un repertorio originale di Gianluca Cascioli al pianoforte e uno rinascimentale affidato al consort di viole Accademia Strumentale Italiana.
Senza trucchi, solo affidandosi alla parola – letta, recitata, cantata – l’attrice milanese coglie la sfida di colmare la distanza: «Lo spettacolo è un dialogo con la musica. Io credo molto nella lettura di scena: crea grande complicità col pubblico. E, se è onesta, costringe a entrare nel corpo delle parole. Porta a scoprire qualcosa di nuovo, insieme a chi ascolta».
Al centro del dialogo troneggia il drammaturgo inglese. E la sua capacità di dare vita a personaggi femminili immortali: come Ofelia, Desdemona, Giulietta, Beatrice. «Donne qui ritagliate in una dimensione quasi metafisica. Ognuna di loro brilla in una solitudine sospesa e lontana, che ci permette di vederle meglio», nota Bergamasco: «Sono figure che, fuori dalle singole storie, ragionano ad alta voce su temi immortali: il senso di colpa, l’amore, il tradimento».
La scena si apre con l’eroina dark per eccellenza, Lady Macbeth, «l’emblema del sangue che non si cancella mai. E del male, degli spiriti, del buio della notte». Si prosegue con Beatrice, la femminilità, «ma anche l’oscillazione continua tra decisione e fragilità, orgoglio e ironia».
[…] Si procede, di quadro in quadro e, tra tante donne immaginarie vittime dell’uomo, diventa inevitabile uno sguardo sulla realtà: con un passaggio sulla violenza sulle donne. Bergamasco guida, transita attraverso le voci di donna, o in esse precipita, come Ofelia che affoga in un corso d’acqua. Il culmine è Giulietta, l’amore giovanile, la passione innocente, in mezzo a odi indicibili ed eventi più grandi di lei e di Romeo.
Romantiche o sanguinarie. Ecco le donne di Shakespeare
Chiara Fabrizi, «La Stampa», 27/08/2014
Scritto da Monica Luccisano, il testo si ispira a sei personaggi femminili creati dal drammaturgo inglese. Al pubblico si rivolge l’invito-avviso, lo stesso che risuona nelle gallerie della metropolitana londinese, di fare attenzione al vuoto e di oltrepassare la distanza che separa la realtà dalla scena. Sarà recitato da Sonia Bergamasco e accompagnato da musiche di epoca rinascimentale e contemporanea. […] L’attrice interpreterà Lady Macbeth, Beatrice, Viola Desdemona, Ofelia e Giulietta: «È il gioco del teatro: entrare e uscire dai personaggi, montando e rimontando storie con la musica, che diventa parte integrante della drammaturgia. Per un attore è una bella prova: non ha l’organicità di uno spettacolo “puro”, ma offre la possibilità di immaginare e dare figura alle donne nate dalla penna di Shakespeare. In «Mind the gap, Lady Shakespeare!» ciascun personaggio verrà presentato in un momento della particolare vicenda, affrontata con un nuovo punto di vista o attualizzata. «Tra tutte, la mia predilezione va a viola, protagonista della commedia ‘La dodicesima notte’. Il suo essere uomo, donna, ragazzo, rimanda a un’immagine molto attuale di adolescenza inquieta» rivela l’attrice milanese.
Stresa, arriva Lady Shakespeare
d.p.., www.prealpina.it, 27/08/2014
Mercoledì 27 agosto, alle 20, l’attrice sarà a Stresa (“È la prima volta, sono onorata”), protagonista, al Palazzo dei Congressi, di un appuntamento-evento creato appositamente per le Settimane Musicali. Accompagnata dall’Accademia Strumentale Italiana e dal pianista Gianluca Cascioli, proporrà, in prima nazionale, “Mind the Gap, Lady Shakespeare!”.
L’altra metà del cielo secondo il Bardo?
“Il testo, scritto da Monica Luccisano, musicologa e drammaturga con cui ho già collaborato, dà voce e ritmo a sei personaggi femminili delle opere di Shakespeare: Lady Macbeth, Giulietta, Beatrice, Ofelia, Viola e Desdemona”.
Donne che dialogano tra loro?
“No, qui a dialogare sono il teatro e la musica. Entro ed esco dai personaggi, alcuni colti nella loro solitudine, che – questo è naturalmente salvaguardato – parlano la lingua scespiriana. Un lavoro dal mio punto di vista interessantissimo, una prova d’attrice impegnativa. All’interno di uno spettacolo che fa suo il gioco del teatro, cercando di smontare il giocattolo e rimontandolo avendo cura di affidare alla musica una parte fondamentale”.
Metamorfosi di Britten
Al Baretti l’omaggio a Britten
Giorgio Gervasoni, «Il nostro tempo», 13/04/2014
In principio, una struggente evocazione del mare apre in modo lirico e sognante le stanze della memoria. È il mare blu di Lowestoft, contea del Suffolk. Lì è nato Benjamin Britten, a poca distanza ha fondato il Festival di Aldeburgh e ha a lungo vissuto. Teatro e musica, parole e suoni. È da quel mare che si dipana il libero racconto di Monica Luccisano, musicologa e drammaturga torinese, costruito intorno ad alcuni momenti forti della parabola esistenziale e artistica di Britten del quale si celebra il centenario della nascita. In scena al Teatro Baretti di Torino per la regia dell’autrice, lo spettacolo ha per titolo «Metamorfosi di Britten». Ad impersonare il compositore che si racconta ad un invisibile interlocutore è Giancarlo Judica Cordiglia L’uomo e l’artista rivivono in modo espressivo e intenso in una toccante varietà di accenti.
La parola scenica si coniuga con il protagonismo della musica affidato a due interpreti di talento: Andrea Chenna all’oboe e Claudia Ravetto al violoncello. Il primo suona l’oboe e rivivono quei capolavori strumentali dell’opera 49 per strumento solista ispirati alle «Metamorfosi» di Ovidio, una vivida galleria di personaggi mitologici: Pan e Fetonte, Niobe e Bacco, Arethusa e Narciso.
Un’ottantina di minuti o poco più, senza intervallo, giusto per raccontare in un ritratto insolito e originale un personaggio dei più inquieti e affascinanti del novecento. Sala molto affollata, successo cordiale per l’autrice e gli interpreti.
Gould il lupo. Radiodramma in concerto
Gould il lupo in radiodramma
Leonardo Osella, «La Stampa – Torino Sette», 5 aprile 2013
Monica Luccisano aggiunge un tassello alla sua vocazione drammaturgica con un «radiodramma in concerto» che mette in scena, anche come regista, venerdì 5 aprile alle 21 al Teatro Baretti di Torino. Il titolo, «Gould il lupo», spiega e non spiega: quel che è chiaro è che al centro c’è Glenn Gould, discusso pianista (ma anche tanto altro: musicologo, saggista, direttore, compositore) che suonava in modo assolutamente imprevisto e imprevedibile, nel 1964 si ritirò dalle sale da concerto dedicandosi esclusivamente all’incisione discografica e allo studio, e nel 1982 morì improvvisamente a soli cinquant’anni.
Lo spettacolo al Baretti pone in scena ovviamente Gould, interpretato da Sax Nicosia, ma anche uno degli autori sul quale egli focalizzò maggiormente l’attenzione, il «rivoluzionario» Arnold Schonberg, su cui ha scritto pagine di penetrante lucidità (lo interpreterà Giancarlo Judica Cordiglia). E poi c’è il lupo, con i suoi ululati: una presenza inquieta e inquietante.
Ma logicamente la presenza quasi invasiva sul palco spetta alla musica, con due interpreti ad hoc: il mezzosoprano Manuela Custer e il pianista Diego Mingolla. Schonberg la fa da padrone, sia con i geniali lavori per pianoforte solo sia con l’apporto della voce. Ma non ha certamente l’esclusiva: c’è Ravel con «La Valse» e «L’Enigme éternelle» dalle «Mélodies hébra’iques»; ci sono Henri Duparc («Chanson triste»), John Cage (estratti dai «Songs Books») e Alban Berg (il Lied «Schlafen, Schlafen»). E soprattutto c’è Bach, l’amore assoluto di Gould, con il «Preludio n. 1» dal «Clavicembalo ben temperato» e con una scelta da quelle «Variazioni Goldberg» che costituiscono il suo contributo più originale e controverso, quasi un lascito testamentario.
Gould il lupo. Antagonismo in forma di contrappunto
Letizia Gatti, «L’asino che vola», maggio 2013
Il radiodramma in concerto di Monica Luccisano invera sulla scena del Teatro Baretti di Torino l’hölderiana unità del colloquio – nel senso dato da Heidegger – fra Glenn Gould e Arnold Schönberg, “in tal modo che”, nella dissonanza della polifonia e cioè nella negazione dell’unità, si “rende possibile l’incontro” e l’esperienza di un autentico ascolto.
In un’epoca in cui, come scriveva già Adorno nel 1947 a proposito dell’industria culturale, nell’“unità dello stile […] si esprime la struttura di volta in volta diversa del potere sociale”, assistere a un’opera capace di capovolgere la negazione in piacere, senza rovesciarla nel suo contrario, e cioè nel positivo, è segno che quell’opera racchiude in sé una qualche forma di antagonismo verso il modo di pensare e sentire dominante. È ciò che si può dire in nuce di Gould il lupo, “radiodramma in concerto” per la regia di Monica Luccisano, che ha debuttato lo scorso 5 aprile al Teatro Baretti di Torino. Protagonisti di un colloquio fittizio orchestrato sul registro stilistico del contrappunto sono due artisti di straordinaria levatura come Glenn Gould, il virtuoso del piano, colui che “Con se stesso era l’uomo più spietato che si possa immaginare” (Th. Bernhard, Il soccombente) e Arnold Schönberg, il rivoluzionario, che con lo scardinamento della gabbia tonale è riuscito a incarnare al più alto grado “la lotta dialettica del compositore con il materiale”, che non è altro, poi, che la lotta contro la società del proprio tempo (così Adorno, in Filosofia della musica moderna).
“Siamo in uno studio radiofonico,” – recita il programma di sala – “dove Glenn Gould sta per andare in onda con un suo nuovo lavoro. Dopo la realizzazione del trittico ‘The Idea of North’, ‘The Latecomers’, ‘The Quiet in the Land’, radiodrammi realizzati tra il 1967 e il 1977 per la CBC canadese, racconto in forma di contrappunto, oggi al centro del nuovo radiodramma di Gould è la rilettura della dodecafonia di Schönberg, vissuta come la nuova forma di comunicazione in un mondo che è ormai la negazione stessa della comunicazione”.
In questo radiodramma in concerto pensato per la scena, il contrappunto a più voci – quella di Gould (Sax Nicosia) e di Schönberg (Giancarlo Judica Cordiglia), del mezzosoprano (Manuela Custer) e del pianoforte suonato da Diego Mingolla, che esegue musiche di Gould e di Schönberg, ma non solo (ci sono anche Webern, Ravel, Berg, Duparc, e persino i songbook di Cage) – il contrappunto, si diceva, è la forma particolare di un corpo a corpo che ha nel discorso metalinguistico sull’arte e sull’incomunicabilità del linguaggio il suo baricentro; è una tenzone incalzante, quella tra Gould e Schönberg, che trova una consonanza – si direbbe, una armonia paradossale – nell’espressione dissonante di una ricercata cacofonia, particolarmente riuscita, ad esempio, nei serrati scambi di battute tra i due, a cui fa eco la voce del mezzosoprano e quella, dirompente, del lupo.
La complessità dello ‘spartito’, che richiede, in alcuni passaggi, uno sforzo di comprensione forse più adatto alla pagina scritta che a una messa in scena teatrale riflette in sé una vis polemica contro il pubblico dei grandi eventi, disprezzato da Gould tanto quanto da Schönberg, quel pubblico di massa che attende da uno spettacolo il soddisfacimento degli appetiti, una morbida conferma, una forma di docile rassicurazione.
Gould il lupo non vuole fare presa sullo spettatore abituato a cercare conforto nella familiarità dei suoni riconoscibili e immediatamente canticchiabili; intende interrogarsi, invece, sulle possibilità del dire nel tempo dell’incomunicabilità del dire stesso. Parole e musica hanno urgenza di trovare una logica espressiva altra-da-sé, che passa necessariamente attraverso il veicolo di una nuova forma, non ancora frequentata, e perciò capace di scardinare le strutture di un linguaggio storicamente determinato.
Ma soprattutto, il radiodramma pone al centro il sentimento di solitudine che prova l’uomo e l’artista quando vive il mondo come insanabile ferita, quando trova nell’isolamento il suo unico approdo – salvezza e condanna insieme –, tanto più angosciante quanto più è appeso al sottile filo che lo separa dall’abisso del nulla eterno.
Vietato suonare
Il viaggio della musica da Est a Ovest comincia con Livermore al Baretti
Maurizio Maschio, «La Stampa – Torino Sette», 19/10/2012
Il primo appuntamento [dell’undicesima edizione della rassegna «EstOvest. Un viaggio nella musica di oggi»] è con lo spettacolo «Vietato suonare», un viaggio narrativo e sonoro sul tema della censura, musicale ma non solo, in paesi geograficamente ma anche culturalmente agli antipodi come l’Afghanistan e gli Usa, la Birmania e il Sudafrica. Il testo scritto da Monica Luccisano e interpretato dal poliedrico regista torinese Davide Livermore, affronterà l’argomento sulle atmosfere musicali di «Different Trains» di Steve Reich, affidate al quartetto d’archi dello Xenia Ensemble e alle elaborazioni elettroniche di Stefano Pierini.
“Censure dei nostri tempi” in Fondazione Mirafiore
«Il Corriere», 16/10/2012
Il tema della libertà della musica è al centro di “Censure dei nostri tempi” incontro-dibattito sullo stato della censura nelle arti in programma per questo sabato, 20 ottobre, alle 18.30 alla Fondazione Mirafiore di Serralunga d’Alba (Tenuta Fontanafredda). Intervengono Antonio Armano, giornalista e autore di “Fahrenheit 621” (Aragno Editore), Sergio Bestente, editor per la casa editrice Edt ed Elis Cranitch, musicista e presidente dell’associazione Xenia Ensemble.
A seguire, alle 20.30, “Vietato suonare”, viaggio narrativo-musicale su musiche di Steve Reich, interpretate dagli archi del quartetto Xenia Ensemble. Il testo di Monica Luccisano, affidato alla voce di Davide Livermore, ha l’intento di raccontare il male che mina la musica e la volontà di rivendicarne, allo stesso tempo, il pieno diritto di essere libera
Dalla musica al silenzio
Strumenti che si danno arie da attori
Leonardo Osella, «La Stampa – Torino Sette», 30 marzo 2012
Monica Luccisano alterna la musicologia alla stesura di spettacoli. In quest’ultima veste propone, come autrice e regista, «Dalla musica al silenzio» al Teatro Baretti di Torino, venerdì 5 aprile alle 21. È un “dramma musicale per due attori/strumenti” che vede sulla scena quattro interpreti in veste, a due a due di «alter ego»: alla violoncellista Claudia Ravetto si affianca Davide Bernardi come «voce del violoncello», al percussionista Riccardo Balbinutti si lega Matteo Barbero come «voce delle percussioni».
Nel lavoro di Monica Luccisano assistiamo a una doppia faccia degli strumenti citati: da un lato protagonisti di messaggi sonori lanciati agli uomini, dall’altro narratori di se stessi e per se stessi quali fruitori della loro espressione musicale. Insomma, si finge sulla scena che gli strumenti musicali non vogliano beneficare noi uomini del loro ascolto, ma che prescindendo dal pubblico rechino gioia estetica soltanto a se stessi. È un’idea originale che al racconto abbina brani firmati da vari autori: si passa dalla geometria sublime di Bach e dalla vivacità di Vivaldi al romanticismo (il primo di Weber, quello vero e proprio di Brahms, quello estremo di Strauss), risalendo attraverso altri come Haendel e Albéniz fino ai suoni più avanzati di Xenakis, Reich, Donatoni.
Bernardi e Barbero vantano significative esperienze teatrali, una delle quali («De Rolandis?») per il Festival Teatro e Colline. Balbinutti, diplomato a Milano con Franco Campioni, si esibisce in Italia e all’estero e insegna strumenti a percussione al Conservatorio di Torino; nella stessa scuola si è diplomata, allieva di Sergio Patria, Claudia Ravetto e ora vi insegna musica d’insieme per archi.
La Memoria del bene. Canti dal Giardino dei Giusti
La memoria del Bene. Canti dal Giardino dei Giusti
«Sistema Musica», gennaio 2010
Nel progetto La memoria del Bene ci sono tre luoghi: il giardino, con i suoi alberi, la memoria, con le sue trame, e il teatro, ovvero il “teatro-poetico-sinfonico”, una forma di narrazione strutturata sulla parola recitata, intonata e cantata. A tali fili narrativi si aggiunge la forza comunicativa del suono (evocando anche la musica ebraica klezmer) e dell’immagine…
Nel Giardino dei Giusti, a Gerusalemme, ogni albero ricorda una persona che durante la Shoah salvò gli ebrei dalla persecuzione nazista. Dunque sono gli alberi a parlare, a raccontare di quando erano uomini e donne: Oskar Schindler, Irena Sendler, Giorgio Perlasca, Carlo Angela, fra i più noti, e altri ancora… Persone che si sono imbattute nell’Olocausto e che spinti da sentimenti diversi allontanarono da sé l’indifferenza e la paura che all’epoca prevalse fra la gente d’Europa. Forse facendo appello alla propria coscienza, forse in maniera istintiva, hanno messo a rischio le proprie esistenze per salvare chi in quel momento aveva perso ogni speranza. Qualcuno riuscì a sottrarre alle camere a gas oltre un migliaio di individui, altri qualche centinaia, altri pochi esseri umani se non una solo. Ma il Giardino dei Giusti non fa distinzioni: “chi salva una vita, salva il mondo intero”.
L’arte della suggestione
L’arte della suggestione
Mario Mainino, www.concertodautunno.it/loc-070307-ghislieri.htm, 10/05/2007
Un serata che coniuga musica e letteratura, non è cosa nuova, molti ci provano, ma come nella cucina, non basta la ricetta per fare un buon piatto ma dipende dagli ingredienti e dalla capacità del cuoco, così come in questa serata pavese, l’ottimo risultato è dovuto alla qualità di tutti gli interpreti e alla sapiente amalgama.
Molti brani erano puramente polifonici ed esaltavano l’insieme dell’Arìon Choir, altre pagine erano riservate alla voce dei due solisti.
Lo spettacolo si avvaleva dei collegamenti attoriali riservati a Davide Bernardi che ha letto pagine di poeti ad hoc strutturati in “Cinque Atti” con i raffinati collegamenti scritti dalla musicologa e giornalista Monica Luccisano, che hanno creato una intensa atmosfera, finalmente non turbata dagli applausi, riservati solo alla fine.
Uno spettacolo intenso, di grande fascino, musica e parole che investigano nell’anima ed evocano desideri d’amore e d’oblio.
Da segnalare anche la raffinata ricerca iconografica che ha presentato i testi in italiano (proiettati in sincronia) con riproduzioni di capolavori della pittura da Rosseau a Magritte.
Tracce di Amleto
Sulle note di Amleto il Maestro Noseda conferma il valore delle Settimane
Luca Segalla, «La Prealpina», 26/08/2006
Progettata a quattro mani da Noseda e Dario Betti … la serata prevedeva l’alternanza tra le musiche di scena di Sostakovic ed un monologo scritto per l’occasione dalla giornalista e musicologa Monica Luccisano, mentre sullo schermo scorrevano le immagini di film muti girati negli anni 1916-1920. Ad infiammare un testo teso fino allo spasimo, dalle parole taglienti come lame, è stata un’intensa Michela Cescon, capace di sprofondare nella follia del protagonista (un Amleto donna, ancor più ambiguo e tormentato) con una recitazione rabbiosa e dolcissima, costantemente sul filo di un violento sarcasmo. Sul podio Noseda è stato impeccabile, tenendo sempre in pugno con grande autorevolezza l’Orchestra delle Settimane Musicali.
Alla fine lunghi, lunghissimi applausi, costretti a terminare solo dall’abbandono della sala da parte dell’orchestra.